In N’io la parola non è un semplice supporto al linguaggio visivo, ma ne diventa l’ossatura, le cicatrici che l’umanità non vuol guardare.
I versi disseminati sulla superficie sono un campo di battaglia semantico. Non seguono un ordine, non offrono una lettura lineare; obbligano lo spettatore a ricostruire, a perdersi, a inciampare tra le fratture del senso.
La poesia scritta sull’opera è denuncia e confessione insieme. Racconta di un’umanità che ha tutto ma non riesce ad essere felice, perché la fabbrica del consumo crea continuamente nuovi bisogni inesistenti.
Ogni parola è un ricamo, un richiamo a ciò che accade altrove ma che, inevitabilmente, ci riguarda
L’opera mette a nudo la schizofrenia del nostro tempo: da un lato la violenza e la morte, dall’altro la pubblicità e il consumo.
“Che stiamo facendo?” è la domanda che rompe il flusso poetico e colpisce come uno specchio puntato addosso. Il testo non permette di restare osservatori neutrali: costringe a riconoscersi complici.
L’opera invita a non anestetizzarsi, a non spegnere il dolore con un tocco, ma a trasformarlo in coscienza attiva. Perché se l’“io” fosse “noi”, la storia — e con essa la società in cui viviamo — potrebbe cambiare direzione.
In questo intreccio di pittura e poesia, N’io si erge come un manifesto: contro l’oblio, contro la banalizzazione della sofferenza, contro l’apatia di chi si rifugia nello “stare bene” dimenticando il resto. Non parla soltanto di ciò che accade fuori di noi, ma illumina ciò che accade dentro: la lotta incessante tra indifferenza e coscienza, tra io e noi.
Testo riportato sull’opera
Normalità silente
tra una pubblicità e l'altra,
stupore a tempo,
nella quotidiana cecità
Abbiamo tutto,
tranne la felicità.
Proviamo a comprarla,
ma l'insoddisfazione
ci porta il conto.
Che stiamo facendo?
Tra luci feroci
un battito si spegne,
poi un altro,
e un altro ancora:
dolore.
Lo vediamo,
lo ascoltiamo,
ma chi lo indossa?
Abbiamo il dono del respiro,
ma nessuno ci autorizza a toglierlo.
I cadaveri diventano numeri
prima ancora di farsi cenere.
Disperazione.
Fame.
Ossa.
Polvere di dignità
che vola via
in scarpe senza passi.
Madri senza figli,
figli senza madri:
assenza
di civiltà,
di giustizia.
Tra muri traforati
serpeggiano grida miste a sangue.
Poi
il silenzio.
Il loro.
Il nostro.
Poi
pubblicità.
Spegniamo il dolore
con un tocco,
ma siamo tutti complici.
Violenza.
Terrorismo.
Genocidio.
Guerra.
Quanti errori facciamo
senza imparare nulla.
La memoria insegna,
ma la senilità dello stare bene
agisce.
Se “io” diventasse “noi”,
sarebbe tutto più semplice.